Giovanni Gastel. L’eleganza di uno sguardo che segue la bellezza
Non si può mancare di rispetto al gioiello, io ne ho il massimo riguardo perché anch’esso è il frutto di un’alta creatività e questo significa che io non devo cambiarne le forme. Il mio compito piuttosto è quello di enfatizzarne il valore
Si pronuncia il suo nome e si pensa all’eleganza.
Giovanni Gastel è uno dei nomi più celebri della fotografia italiana a partire dai primi anni Ottanta, quando la classe innata e la tenacia di un’esperienza folgorante e precoce gli aprirono le porte della moda. Un mondo magico, che proprio in quel decennio si stava affermando in tutta la sua potenza, lo scoprì attraverso collaborazioni con importanti testate di settore italiane ed estere e i grandi brand internazionali.
Uno stile immediatamente inconfondibile nato da un gusto gentile e costantemente ispirato da un’idea di raffinatezza ed equilibrio, certamente figlia di un’educazione multiforme ed eclettica mediata da una parte dalla aristocratica famiglia materna (sua mamma era sorella di Luchino Visconti e da parte di madre discendente della famiglia Erba), dall’altra, da quella paterna di estrazione borghese. Un flusso di stimoli e idee che lo condussero a 15 anni a pubblicare un libro di poesie e a 16 a fotografare, attività che non ha più interrotto.
Nel 1997 la Triennale di Milano gli dedica una personale (a cura di Germano Celant) che lo consacra artisticamente e lo rende definitivamente protagonista del mondo della fotografia e non è un caso se nel 2002 viene insignito proprio dell’Oscar di quell’arte in cui eccelle. Presidente onorario dell’Associazione Fotografi Italiani Professionisti e membro permanente del Museo Polaroid di Chicago, Giovanni Gastel è universalmente riconosciuto grazie ad un successo professionale che si rinnova ad ogni nuovo suo lavoro.
«L’eleganza è un valore morale più che estetico» è solito dire, perché l’eleganza è un atteggiamento, è un modo di essere che deve coinvolgere tutti gli aspetti della propria esistenza. E quel portamento, quello stile sono evidenti in tutta la sua produzione, non solo fotografica per la quale vanta innumerevoli pubblicazioni e campagne per i più noti brand mondiali (basti pensare a Versace, Missoni, Krizia, Trussardi, Pasquale Bruni, solo per citarne alcuni) ma anche nei suoi libri come le raccolte di poesie e Duetto Profano, un romanzo giovanile – recentemente ristampato – che si snoda tra l’invenzione, il vissuto ed il sognato.
Le sue foto non seguono le mode del momento. Sono individuabili per uno stile preciso che si rinnova, si evolve senza smentire la sua scelta iniziale, quella dell’eleganza. Nonostante possano esserci anni di distanza tra un servizio e l’altro, la sua coerenza riesce a renderle tutte contemporanee. È questo uno dei pilastri del suo apprezzamento?
Ho sempre cercato di non connotare le mie fotografie ad un’epoca, alle sue peculiarità, cercando di esprimere quello che è il mio modo di vedere. Noi fotografi siamo un ‘filtro’ e nel nostro lavoro dobbiamo metterci dentro quello che siamo, il nostro modo di essere. È sempre stata una mia precisa volontà creare delle immagini ‘atemporali’, impossibili da incasellare in periodi. E questo valore mi è stato riconosciuto.
La sovrapproduzione di immagini, nell’era veloce degli smartphone ci ha sottoposti ad una assuefazione visiva, quasi tutto si trasforma in una cronaca diretta senza orpelli o viceversa, una finzione abbellita da un filtro. La creatività e lo stile personale riusciranno a mantenere la loro autorevolezza?
Premetto che io sono favorevole a questa produzione ininterrotta di fotografie. Ormai sui social ci sono miliardi di scatti che rappresentano il segno tangibile di un nuovo linguaggio, universalmente riconosciuto.
Ciascuno vuole far sapere di se stesso. Di cosa mangia, chi frequenta, dov’è in quel preciso momento… ma si tratta di foto senza ambizioni artistiche. Sono documentazioni.
Il fotografo che ha consolidato un proprio linguaggio, come dicevamo, offre invece una visione del mondo filtrata, parallela. In passato potevamo vantare anche la conoscenza tecnica che faceva la differenza, oggi non più. Con certezza posso dire che la fotografia autoriale si colloca in un proprio spazio dove la sovrapproduzione non disturba ne costituisce un ostacolo.
“L’arte dona agli occhi la visione del mondo” ha detto Ettore Spalletti, uno degli artisti più significativi del nostro tempo. La sua fotografia cosa ci racconta?
La mia fotografia ha due meriti, non essere legata alla contingenza del tempo e ritrovarsi a vivere una seconda vita nell’arte. Un mondo quest’ultimo che ho vissuto attraverso la mia educazione, la mia famiglia e i luoghi che ho visto e vissuto. L’arte classica, neoclassica, il rinascimento sono il mio ideale dove l’eleganza e l’equilibrio descrivono il canone della bellezza; poi c’è stata la scoperta del Pop che mi ha consentito di rileggere le cose in maniera innovativa attraverso una nuova visione senza però mai rinunciare al valore di eleganza. L’arte e, pertanto la fotografia, non devono raccontare il mondo in maniera reale ma mostrarne uno parallelo dove il ruolo del creativo è quello di ‘creare’ attraverso il suo sguardo distonico.
Il mondo del gioiello è principalmente interpretato dallo still life. Lei è riconosciuto tra i Maestri del genere. Quanto può influire l’originalità di una campagna sulle vendite del prodotto al pubblico?
Il valore di una campagna è reso positivo dalla giusta interpretazione che il creativo riesce a darne. Spesso la committenza viene vista come il demonio, ma non lo è; va ascoltata per comprendere la natura del prodotto da scattare. Ogni mia campagna nasce sempre dopo aver dialogato con il committente, instaurando un percorso costruttivo di conoscenza di quello che sto andando a fotografare. Devo capirne il valore, il tipo di pubblico a cui è rivolto, il prezzo; e se il fruitore finale lo comprenderà successivamente attraverso quella mia foto, avrò fatto bene il mio lavoro.
Nell’arco della sua attività come ha visto mutare il mondo della gioielleria?
Anche il mondo della gioielleria ha subito dei cambiamenti. Ma io distinguerei quel settore in due ambiti ben distinti; l’alta gioielleria e quella media. Non v’è ombra di dubbio che la prima continua ancora ad occupare un suo spazio definito e continuerà a farlo anche perché è un prodotto ammirato e richiesto in tutto il mondo. La gioielleria media invece è stata inevitabilmente travolta dalla crisi, ma ne sono convinto, con la ripresa ritornerà anch’essa a nuova vita, ricollocandosi negli giusti spazi della società; anche perché intorno vedo tanta energia, soprattutto tra i giovani che hanno molto talento.
Fino a dove lo stile di un fotografo si può spingere per la rappresentazione del gioiello nella campagna pubblicitaria? È lecito che l’impronta dell’artista possa alterare l’oggetto protagonista fino a mutarne le forme?
Non si può mancare di rispetto al gioiello, io ne ho il massimo riguardo perché anch’esso è il frutto di un’alta creatività e questo significa che io non devo cambiarne le forme. Il mio compito piuttosto è quello di enfatizzarne il valore, il messaggio intrinseco, costruendogli un’atmosfera intorno, uno spazio in cui possa dialogare ed esaltarsi.
Il mondo del lusso è sempre visto come uno spazio d’élite per un oggetto bello ed esclusivo. Nella campagna di un prodotto giusto per tutti, il concetto di “bene elitario” deve modificarsi per diventare popular o seguire altresì il concetto di unicità?
Ribadisco, l’immagine deve tener conto del valore intrinseco dell’oggetto e, con la complicità e le capacità del fotografo, saper rappresentare creativamente quei suoi valori.
Scambiare qualche battuta con un importante e noto protagonista della fotografia internazionale mi ha riportato alla mente l’affermazione di un altro grande Maestro dell’arte fotografica, che appare oggi più che mai profetica. Henry Cartier Bresson scriveva: «È un’illusione che le foto si facciano con la macchina…. si fanno con gli occhi, con il cuore, con la testa (…)» e di cuore Giovanni Gastel ne mette tanto.
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