Barbara Lebole: «Raccontiamo storie, e non è mai un monologo»

Le nostre creazioni dove le metti stanno bene. La gente lo ha percepito. È interessante notare che chi le acquista vuole sapere, conoscere quello che ci sta dietro, si documenta perché sa che sta comprando un gioiello non gioiello, un concetto, qualcosa di eccitante con cui può avere delle affinità.

L’occhio gravita attorno a tanta roba perdendosi nella ricerca di oggetti di culto e di design (per lo più pezzi unici o in edizione limitata), e tutti reclamano attenzione.
È una dimensione trasversale, allagata da una rassegna di golosità per collezionisti e amanti del piacere estetico, dove da qualche parte, sicuro, c’è qualcosa a cui prima nemmeno avevi pensato. Tutto ha un senso, perfino l’insegna pressoché anonima lascia intendere che qui regole non ce ne sono, che qui tutto è iper o essenziale insieme.

E volutamente te lo lascia percepire già da subito. È difficile accostare una definizione. Taluni lo chiamano negozio (che espressione grossier!) ma sarebbe appropriato dirlo laboratorio, fabbrica, officina. Provocatoriamente installazione?

L’identità non nega la preesistente architettura – chi ha memoria l’associa a quella che un tempo fu della Uomo in Lebole, abbigliamento maschile (un’altra storia!). Di quello spazio smisurato, in via Margaritone, ne ha cambiato la destinazione d’uso ma ne ha mantenuto il fascino decadente ed austero del post industriale, che si è dimostrato essere il substrato perfetto per celebrare la stravaganza che qui ha il sopravvento. Non ci arrivi (quasi) mai per caso – in principio neppure lo noti – e ci ritorni come ad un piacevole incontro con un mondo (non virtuale) da attraversare lentamente, passando da un altrove all’altro, senza soluzione di continuità: dall’oggettistica agli elementi di arredo, dalla fioreria alla baby factory, dalla quadreria e fino ai bijoux fatti in loco da una squadra di sole donne che ci mettono le mani, la mente, il cuore, e che insieme alla proprietà ritaglia un eccellente esempio di empowerment femminile.

Con buona ragione il marchio si è messo in gioco con una precisa peculiarità, dare spessore alle idee intessendo usi e costumi. In sintesi, se ne infischia delle omologazioni. Tutto torna!

È attitudine, virtuosismo, coraggio o cosa?
“Credo che basti guardare in modo diverso le cose che vedono gli altri o, semplicemente, vedere per primi quello che nessuno ha ancora visto. – Organizza il pensiero rigirandosi tra le mani la collana e sorridendo puntualizza – sembra uno scioglilingua, ma è la risposta più lineare che possa dare”.

Collezione Solo Io Kanji, collana Amicizia Plexi Turchese: ottone galvanizzato oro, elemento in plexiglas trasparente con ideogramma giapponese dell’Amicizia, catena con perle e pietre naturali azzurre marmorizzate, pendente in plexiglas trasparente, tra grandi perle, decorato con un particolare elemento in filigrana d’ottone dorato a forma di conchiglia traforata.

Parliamo di talento, allora?
“Parliamo di mia madre, allora!”

(calibro la domanda) È lei la creativa?
“Certo che sì, incontrollabilmente creativa, che è impegnativo starle dietro. Costruisce collegamenti imprevedibili, scandaglia, scava dentro realtà distanti anni luce… È una sperimentatrice, una qualità che possiede per natura, suppongo influenzata anche dai precedenti anni di antiquariato in cui ha vissuto a stretto contatto con pezzi di rarità e che, inevitabilmente, le hanno affinato l’inventiva e insegnato a tirarne fuori altri valori, simbolici e materici e, soprattutto, a rivelare il lato più intricante, l’inatteso, che legittima nuove attribuzioni o nuovi significati. Gli dà una forza, ecco, usando un linguaggio non verbale, fatto di oggetti piuttosto che di parole”.

Allora ‘narratrice’, mi pare che le calzi a pennello! (ed eccentrica aggiungerei, e scusate se metto insieme le due cose ma in lei c’è l’impossibilità di tenere separate arte e vanità, vanno a braccetto e con molta leggerezza. Chi la conosce sa che entrambe sono sue. È nella sua indole).
“Assolutamente sì.”

L’anno di partenza è in calendario già nel secolo scorso. La città è Arezzo, nel centro dell’Italia. Le due anime – antitetiche, estreme, dissonanti – sono, appunto, Barbara e sua mamma Nicoletta. Non si assomigliano affatto, una è il rovescio dell’altra (anche nell’uso dei colori, l’austero nero è il preferito di Barbara, di Nicoletta meno, forse per niente), ma si compensano reciprocamente giacché ambedue sono di spirito pratico, nota caratteriale che ritroviamo anche nella terza generazione, Mariavittoria, di loro rispettivamente figlia e nipote, nonché volto di numerose collezioni Lebole Maison.

Spingersi in un altro tempo e in luoghi che non sono i nostri rendendo familiari usanze che non ci apparten-
gono. È questo il principio?

“Sì, è un giocare con gli opposti. Trasformare è il suo credo, e la nostra impronta digitale”. – precisa Barbara.

Marchio indipendente, con il pallino della cultura e della ricerca, oggettivamente ritenuto iconico da un pubblico di nicchia, ma ricco di contenuti e di contaminazioni da assumere un’importanza crescente che l’ha fatto entrare in sintonia con un sempre più vasto pubblico di estimatori radical chic. Oggi è un cult!

È evidente che i numeri legano i risultati all’originalità dell’offerta, e Barbara lo conferma andando dritto al punto.
“La ragione è la stessa da sempre, lavoriamo sull’intuizione. Basti dire che con i ritagli dei tessuti di antichi kimono ti portiamo a due passi dal Giappone, ricostruiamo immagini simbolo con dentro un bagaglio ricchissimo. Per questo le nostre creazioni dove le metti stanno bene. La gente lo ha percepito. È interessante notare che chi le acquista vuole sapere, conoscere quello che ci sta dietro, si documenta perché sa che sta comprando un gioiello non gioiello, un concetto, qualcosa di eccitante con cui può avere delle affinità. Si lasciano trascinare dentro dalle storie e questo fa stare bene”.

C’è una spiegazione a queste incursioni nipponiche?
“Il carisma delle filosofie di questa terra, le sue consuetudini e modernità, i suoi riti e le sue usanze che si confondono e si fondono con i nostri nel momento stesso in cui smettono di essere orientali. E che dire della particolarità dei suoi tessuti che sono una vera arte. È una fonte di ispirazione intensa ed emozionale, ma, evidentemente, per noi non c’è solo il Giappone, pensiamo ai nostri gioielli come sofisticatezze quotidiane e gli diamo tante facce perché lavoriamo su combo di idee che prendiamo in giro per il mondo intero. Le mettiamo giù e valutiamo quelle che ci sembrano potenzialmente più convincenti o più singolari. Un esempio? Togliere via le capsule ai tappi di champagne – magari con uno spettacolare sabrage -, ricoprirle di dettagli di quadri famosi e sommarle di nuovi elementi narrativi che danno tempra. D’altronde sottrarre agli oggetti la loro abituale funzione è un nostro vezzo”.

La costante richiesta dà ragione alla loro filosofia e accenno al fatturato. Provo a buttarlo lì, mettendo in conto che potrebbe essere l’ultimo dei pensieri di Barbara. E così è. Piuttosto, se di cifre bisogna parlare, preferisce sottolineare quella stilistica.
Il fatto è che poi ci si aspetta sempre qualcosa di più.
“E sempre qualcosa di più diamo, come meglio possibile e con infinite variabili, che sono davvero tante da averne fatto un vero filone creativo”. Lo dice senza retorica, proprio di chi parla con franchezza, con pochi convenevoli, anzi nessun convenevole. E con un guizzo di orgoglio.
Un misto tra ambizione professionale e un piccolo sfogo. Ci sta. La concorrenza è stressante, sta sempre dietro l’angolo, pronta ad intromettersi, tuttavia lei smussa la tensione.
“Le imitazioni non si contano ma se ti copiano è lusinghiero, è sempre un buon segno. Poi, che dire, i risultati sembrano piuttosto anonimi e di scarso spessore. Non hanno particolari qualità. Forse gli manca il perché”.

Prima di lasciarmi alle spalle questa dimora delle meraviglie mi guardo ancora una volta intorno e di pensiero in pensiero mi spingo a immaginare casa sua. Come l’avrà mai arredata? Ma abbozzo un sorriso e faccio un gesto della mano come a dire, è tutto ok.

Ci salutiamo senza tirarla troppo per le lunghe, nella maniera asciutta ed amichevole di Barbara, una imprenditrice che sì, ho già incontrato diverse volte, in altre occasioni, ma questa chiacchierata informale mi ha dato l’occasione di capire quanto sia così aretina e meneghina insieme. Senza dubbio, una qualità inusuale.


Barbara Lebole: We tell stories, and it’s never a monologue. That is, the importance of choice

The eye gravitates to so much stuff by getting lost in the search for cult and design objects (mostly one-of-a-kind or limited edition pieces), and they all claim attention. It’s a cross-dimension, flooded with a review of gluttony for collectors and lovers of aesthetic pleasure, where somewhere, sure enough, there’s something you hadn’t even thought of before. It is difficult to juxtapose a definition. Some call it a store (what a grossier expression!) but it would be appropriate to say laboratory, factory, workshop. Provocatively installation? Identity does not negate pre-existing architecture-those with memory associate it with what was once Man in Lebole, menswear (another story!). Of that boundless space on Margaritone Street, it has changed its use but retained its decadent and austere post-industrial charm, which has proven to be the perfect substrate for celebrating the extravagance that has the upper hand here. With good reason, the brand set out with a definite peculiarity, to flesh out ideas by weaving in customs and mores. In short, it doesn’t give a damn about homologations. It all adds up!

Is it attitude, virtuosity, courage or what? “I think it is enough to look differently at the things others see or, simply, to see first what no one has seen yet.” Let’s talk about talent, then? “Let’s talk about my mother, then! She is an experimenter, a quality she possesses by nature, I suppose also influenced by her earlier years in antiques where she lived in close contact with rare pieces and which, inevitably, sharpened her inventiveness.” So ‘storyteller,’ it seems to me, fits her like a glove! “Absolutely.” The starting year is on the calendar as far back as the last century. The city is Arezzo, in the center of Italy. The two souls are, precisely, Barbara and her mom Nicoletta. They are not at all alike, one is the reverse of the other, but they compensate for each other since both are practical-minded, a character note that we also find in the third generation, Mariavittoria, their daughter and granddaughter respectively, as well as the face of numerous Lebole Maison collections.

Pushing into another time and place that are not our own by making familiar customs that do not belong to us. Is this the principle? “Yes, it is a playing with opposites. Transforming is its credo, and our fingerprint.”
Independent brand, with a focus on culture and research. Today it is a cult! It is clear that the numbers tie the results to the originality of the offering, and Barbara confirms this by getting straight to the point. “The reason has always been the same, we work on intuition. Suffice it to say that with fabric scraps from ancient kimonos we take you a stone’s throw away from Japan. People have sensed that. Interestingly, people who buy them want to know, to know what is behind it.”
Is there an explanation for these Japanese forays? “It is an intense and emotional source of inspiration, but, obviously, for us there is more than just Japan, we think of our jewelry as everyday sophistications and we give it many faces because we work on combos of ideas that we take around the world.”

The constant demand gives reason to their philosophy and I mention turnover. I try to throw it out there, putting it on the record that it might be the least of Barbara’s thoughts. And so it is. Rather, if figures are to be talked about, she prefers to emphasize the stylistic one.

The fact is that then something more is always expected. “We always give something more, as best we can and with infinite variables. There is no shortage of imitations but if they copy you it is flattering, it is always a good sign.”
We say goodbye in the dry and friendly manner of Barbara, an entrepreneur whom, yes, I have met several times before, but this informal chat gave me a chance to realize how much she is so aretina and meneghina together.

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