SIHH quest’anno ha aperto le porte anche al pubblico di semplici appassionati, riservandogli però una sola giornata (il 20 gennaio, ultimo giorno di esposizione), dalle 11 alle 18 e fino ad esaurimento dei biglietti disponibili. Meglio che niente, almeno per i pochi eletti che hanno avuto la possibilità di poter ammirare da vicino autentiche opere d’arte delle più rinomate manifatture internazionali.
La manifestazione è oggi un punto di riferimento imperdibile per gli operatori di genere, cresciuta nei numeri e nella qualità (beninteso laddove sia ancora possibile), offrendo un panorama esaustivo e spettacolare dell’alta gamma dell’orologeria mondiale. I numeri: 45.000 mq di esposizione, 17 manifatture storiche (A. Lange & Söhne, Audemars Piguet, Baume & Mercier, Cartier, Girard-Perregaux, new entry insieme a Ulysse Nardin, entrambi in coabitazione nel Kering Group, quindi Greubel Forsey, IWC, Jaeger-LeCoultre, Montblanc, Officine Panerai, Parmigiani Fleurier, Piaget, Richard Mille, Roger Dubuis, Vacheron Constantin e Van Cleef & Arpels), 13 marchi indipendenti, quattro in più della passata edizione (Christophe Claret, Grönefeld, H. Moser & Cie, Hautlence, HYT, Kari Voutilainen, Laurent Ferrier, MB&F, Manufacture Contemporaine du Temps, Ressence, Romain Jerome, Speake-Marin, Urwerk).
Per l’edizione da poco conclusa, sia le manifatture storiche che i marchi indipendenti hanno comunque privilegiato forme e volumi meno esuberanti e più sobri rispetto all’edizione 2016, predisponendosi per un’eleganza espressa più di testa che di pancia. Un lusso meno urlato, forse, ma più condivisibile.
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